“Fui tra i primi a partecipare alla fondazione del Coordinamento Antimafia che operò a Palermo negli anni di piombo compresi fra il 1986 e il 1990..." Racconti, diari, testimonianza e memoria contro la mafia. Insieme alle cronache dai campi antimafia, ecco qualche lettura per riflettere itorno al fenomeno della criminalità organizzata. Cominiciamo con un racconto scritto da Vito Mercadante, finalista del Premio LiberEtà 2005.
Fui tra i primi a partecipare alla
fondazione del Coordinamento Antimafia che operò a Palermo negli anni di piombo
compresi fra il 1986 e il 1990.
Mi convinse ad intraprendere questa
attività la considerazione che, mentre la mafia trovava per vie misteriose e
traverse tutti i modi per trasmettere all’opinione pubblica i suoi interessati
messaggi, la parte che, invece, era nel giusto, non trovava gli spazi e le
occasioni per rintuzzare i paradossi mafiosi e paramafiosi. Aveva ragione Gian
Paolo Pansa a pensare e a dire che Palermo negli anni che precedettero la sua
santissima reazione a questo stato di cose, sembrava una palude. Ma si vede che
la coscienza collettiva trova sempre, per forza di cose, una voce per far
sentire il suo risentimento ed il suo dolore. In questo caso la vigilanza sulla
sorte della cittadinanza toccò a noi rappresentarla. La mafia ed i suoi
dintorni non avevano mai trovato nel corso della loro storia una qualunque
resistenza nell’opinione pubblica palermitana alle sue ondate di difesa contro
uno stato che cominciava a prendere coscienza di sé, combattendola. Così si
spiega la gragnuola di colpi che si abbattè su di noi del Coordinamento.
Di questa storia che fu continua,
ricordo alcuni momenti importanti. Il primo fu quello del tentativo fatto dal
Coordinamento di costituirsi parte civile nel maxiprocesso. Ricordo chiaramente
il dibattito svoltosi tra tanti rappresentanti di sindacati ed associazioni per
la scelta di avvocati e la meraviglia che mi colpì per certi interventi che,
invece di esaltare l’offerta gratuita di porsi a disposizione di certi
procuratori, stavano a sottolineare gli interessi, se non altro di notorietà,
che li sottintendevano. Uno di questi fu del segretario della Camera del Lavoro
di Palermo, Tripi. Cominciai a capire che neppure dentro l’Antimafia tutto
scorreva liscio. Poi ci venne respinta dalla Magistratura questa nostra
richiesta, mentre venne accettata quella del sindaco di Palermo, Orlando.
La più forte botta ci venne inflitta da
una parte da cui, come nel caso di Tripi, non ci aspettavamo il colpo. Fu
proprio Leonardo Sciascia a scrivere nel Corriere della Sera un forte articolo
sopra i professionisti dell’antimafia nel momento in cui bisognava mobilitare
l’opinione pubblica per uno sviluppo positivo del maxiprocesso. Egli, come
rappresentanti classici di questa categoria di cittadini mai esistita prima,
assumeva Leoluca Orlando e Paolo Borsellino.
Il fatto ci ferì molto perché era un
incentivo a quella smobilitazione del movimento che tanti s’auspicavano. Si pensò
di rispondere per le rime allo scrittore e se ne assunse il compito un giovane
che lavorava presso la casa editrice “ Zisa “ Francesco Pitruzzella.
Il testo scritto da lui fu lo stesso di
quello pubblicato nei giornali, perché, essendoci fissato un appuntamento per
discuterlo, trovammo che esso era già stato comunicato alla stampa dalle
agenzie e così non vi si apportarono quelle correzioni che erano previste per
il discorso duro che esso conteneva e per certi frasi che andavano un po’ più
su delle righe.
Accadde un putiferio. Fummo attaccati
da tutti ivi compresi i comunisti: Farinella e Luigi Colajanni in testa. Non
parliamo poi della stampa locale, il Giornale di Sicilia in particolare, che in
quei mesi si affannava a diramare precise indicazioni all’opinione pubblica
siciliana circa la necessità di non disturbare il processo sulla mafia, che
doveva, secondo esso, andare avanti per i fatti suoi. Era stato infranto un
mostro sacro ed intoccabile. Il Corriere della Sera che aveva ospitato tutti i
“ pezzi “ scritti da Sciascia su questa storia, era il più indignato di tutti.
Veniva fuori, insomma, sotto quella nostra provocazione tutta quell’Italia di
sinistra e di destra che in buona o cattiva fede era disturbata da questo
processo intuito come una rottura di certi equilibri sociali e politici.
Eravamo disperati, come quelli che,
avendo rotto con un sistema di silenzi, per una giusta causa, si vedano
assaliti da tutte le parti.
Ci aiutò in questo grave momento Gian
Paolo Pansa de “ La Repubblica “ che non solo difese le nostre posizioni, ma
denunciò la grave scorrettezza per non dire irresponsabilità del Giornale di
Sicilia che aveva pubblicato i nomi con altri dati dei componenti il comitato
della nostra associazione. Ben presto le parti s’invertirono. Si riconobbe la
validità del nostro discorso e si cominciò a guardare con sospetto la tesi di
Sciascia. Il mafiologo Pino Arlacchi espresse un giudizio tagliente nei
confronti dell’impegno antimafia dello scrittore siciliano nella sua narrativa.
Il PCI fece marcia indietro ed inviò a Palermo Aldo Tortorella per vedere come
andassero qui i rapporti del partito col problema mafia. Ricordo che in un mio
intervento gli espressi i miei dubbi circa i propositi di andare a fondo in
questa lotta contro l’onorata società da parte di taluni rappresentanti locali.
Col tempo, infatti, alcuni di loro vennero rimossi.
Così la nostra immagine si salvava e
nello stesso tempo assumeva maggiore importanza agli occhi della gente. Vedremo
poi cosa comportò questa amplificazione della nostra presenza.
Intanto penso che sia necessario
parlare di un fatto che mi riguarda personalmente, anche perché può costituire
un dato per conoscere meglio Sciascia, considerato che per ora non si fa altro
che celebrarlo.
Lo scrittore di Regalmuto in un suo
articolo pubblicato sul Corriere della Sera, insinuò il sospetto, per lui
vantaggioso, che l’autore di quella nota fosse un preside, di cui non dette il
nome, il quale per vendicarsi del fatto che non gli era stato recensito un
volume datogli in visione, aveva steso quel testo velenoso che gli era arrivato
fra capo e collo. Il preside ero io ed il libro era il mio, non tale, però il
testo del documento del Coordinamento.
Ho detto come sono andate le cose. E da
ciò si può evincere quanto condizionasse il pensiero dello scrittore il
giallismo che si portava dentro. Ma vi è di più. Da tempo, avendo letto e
continuato a leggere Sciascia, m’ero accorto che lo spirito e le parti di un
mio lungo racconto, inviatogli ed intitolato San Pancrazio che poi aprì una
lunga serie di novelle pubblicate in un volume intitolato “ La
terra del caos “, fossero stati fatti suoi nella famosa intervista da lui
concessa alla giornalista francese Marcelle Padovanì e nella presentazione di
un libro sulla Sicilia. Il libro-intervista intitolato “ La Sicilia come
metafora del mondo “ riprendeva alcuni concetti-chiave espressi nel racconto:
“San Pancrazio”.
Allora capii il motivo per cui Sciascia
comunicò ad un comune amico che ci aveva fatto incontrare, il suo proposito che
a me era sembrato strano, di non volermi più rivedere.
Coniugai questi fatti al rifiuto
solenne che aveva avanzato alla proposta che gli aveva rivolto diverse volte
Mario Mineo per il circolo Labriola, di partecipare ai nostri dibattiti e
conferenze, ed a quanto m’aveva detto il professore di Storia Contemporanea
presso l’Università di Palermo, Gian Carlo Marino circa quanto Sciascia s’era
dato da fare per richiamare all’inizio della sua carriera l’attenzione verso di
sé del PCI, per farmi di lui un quadro molto dissimile da quello che i suoi
apologeti, solitamente tracciano; come quello per me di un uomo che fra i
momenti compresenti in un artista descritti da Croce, fossero predominanti
quello economico e quello puramente intellettuale: troppo poco per un impegno
antimafia.
Di esso non si può dire che noi fossimo
privi, quando pensammo di attuare un progetto che poi si manifestò di una
importanza eccezionale.
Era evidente che la mafia, aveva dei
precisi riferimenti nei partiti della maggioranza nella Regione e nella
compagine del governo nazionale. I primi erano aperti, i secondi meno patenti,
anche se più potenti. Ancora: questo fenomeno era considerato dalla gente del
Nord e del Centro dell’Italia come un problema che riguardava la Sicilia ed un
po’ meno il resto del Mezzogiorno,mentre per noi investiva tutta l’Italia e non
solo per via del traffico della droga, ma anche per le ricadute che il
compromesso fra mafia e potere romano aveva sulla politica nazionale. Eravamo
d’accordo nel Coordinamento che la battaglia contro la mafia si doveva vincere
in quella parte d’Italia che se ne considerava indenne, anche per i maggiori
consensi che ivi si potevano conseguire.
E così alzammo ponti fra Palermo e
varie parti d’Italia: Prato, La Spezia, Massa Carrara, Vicenza ed altre città
d’Italia. Nostre pattuglie andarono ad illustrare a migliaia di studenti e di
genitori il problema della mafia in Italia davanti talvolta a rappresentanti di
partiti al potere che cadevano dalle nuvole quando si accennavano loro gli intrecci
perversi fra l’onorata società e i loro partiti a Palermo, per creare
contraddizioni all’interno di essi.
Poi ne pensammo un’altra che, per la
verità non andò del tutto per il verso giusto. Si era alla vigilia delle
elezioni nazionali del 1987. Perché non scrivere nero su bianco tutto ciò che
dagli atti giudiziari risultava a carico di certi candidati che candidi non ci
sembravano affatto, mentre per la maggior parte, o per dimenticanza o per
ignoranza, tali potevano apparire? Detto fatto, mettemmo assieme tre o quattro
righe, che li riguardavano, per ognuno di questi vecchi rappresentanti del
popolo: gli onorevoli Mannino, Avellone, Lima, Gioia, Gunnella, D’Acquisto e
Reina e mandammo il testo che li riguardava alla stampa di sinistra.
Ne venne fuori un putiferio alimentato
anche dal fatto che per parecchi giorni ci mettemmo a girare per le strade
centrali della città per distribuire ai cittadini copie di quella denuncia, e
che si promosse una conferenza stampa per stigmatizzare l’impudicizia di chi si
presentava alle elezioni con queste belle storie alle spalle.
Ci prendemmo l’accusa di mafiosi
(giusto noi!) dell’onorevole Mannino e dall’onorevole Capitummino, presidente
delle ACLI che, per giunta, ebbero il coraggio straordinario, ma normale di
certi siciliani dotati di una faccia di bronzo inverosimile, di conclamare che
noi eravamo stati sollecitati a questa iniziativa dall’onorevole Mattarella,
allora commissario provinciale della DC. In casa della Balena Bianca poi si
aggiustarono le cose. Ma l’onorevole Avellone di Partinico non deflettè, ci
querelò per calunnia alla magistratura.
Intanto la gente si muoveva attorno a
noi: non era vero che Palermo era in stato comatoso rispetto al compito che le
spettava di lottare contro la sua nemica di sempre: la mafia. I nostri incontri
col pubblico ci facevano riscontrare un successo notevole, fin dalla prima
volta, quando lo convocammo per la prima volta a Mondello in occasione di una
conferenza-dibattito. Pensammo che sarebbero venuti i famosi quattro gatti ed
invece accadde che la sala si riempì di tanta gente e che parecchi cittadini
rimasero all’impiedi. Questo primo successo ci spinse a seguire su questa
strada. E così un po’ alla volta il popolo di Palermo dimostrò che in buona
proporzione esso era schierato contro la mafia.
Bisogna ben dire che in tutta questa
vicenda ci fu sistematicamente ostile il Giornale di Sicilia che non solo, come
s’è detto, pubblicò tutti i dati relativi alle persone che componevano il
comitato del Coordinamento, ma ospitò tutta la spazzatura che ci veniva
riversata da tutta quella gente che, ora s’è visto, rappresentava la mafia
fuori della mafia, quando non vi stava dentro sino ai capelli. Come era
accaduto a Sciascia, il direttore di questo giornale appuntò i suoi strali
contro di me per il fatto che ad una riunione indetta fra giornalisti da quelli
della rivista “ I siciliani “ di Giuseppe Fava, io avevo invocato la necessità
della presenza del mensile fra la stampa siciliana, considerato che un povero
diavolo che volesse scrivere qualcosa contro la mafia, non poteva trovare altra
ospitalità da quella offerta dalla rivista di Catania. Apriti cielo! Da parte
dei vertici del giornale liberale mi si fece sapere che un rigo, che fosse un
rigo, di un mio scritto non avrebbe mai trovato ospitalità nel quotidiano. Sono
stati di parola.
Il Giornale di Sicilia si è reso famoso
durante il maxiprocesso per aver dedicato una facciata sul tema mafia ed
antimafia, come se le due entità si potessero trattare alla pari; per avere
affermato che parlare di onorata società e dei suoi guasti nella realtà siciliana
significava rovinare l’economia siciliana; che i cortei degli studenti
manifestanti contro la piovra, sulla scia di quanto diceva Sciascia, erano
tempo perduto; che Joseph Bonanno al contrario di Tommaso Buscetta non aveva
parlato, insegnando così a tanti siciliani che potevano servirsi del nome di
Buscetta per indicare un “ cascittone “, ed altre preziose cose fra cui gli
articoli sistematici contro Giovanni Falcone.
In parole povere: non ne ha azzeccata
una.
Poi il tramonto del coordinamento.
Orlando s’era affermato, nacquero dei litigi all’interno di esso, il PCI aveva
voglia di chiudere questa vicenda.
Ma fu una stagione felice di risultati.
E non è vero che di esso non c’è più bisogno. La mafia è ancora forte, ha molto
ascendente nell’opinione pubblica, è capace a livello cittadino di produrre
veleni, di servirsi di uomini riciclati per le sue necessità politiche e
sociali di utilizzare referenti politici a livello regionale ed a livello
nazionale. Se nell’attuazione di queste iniziative incontrerà il vuoto, avrà
migliori mezzi per tenersi a galla.
Recentemente la mafia ha bruciato
l’automobile di Angela Lo Canto, presidente di quel che restava del
Coordinamento, per avere condotto la battaglia contro i proprietari abusivi di
Pizzo Sella che avevano comprato i villini di una società guidata dalla sorella
di Totò Riina.
Per la verità la mafia deve il suo
successo al fatto che con la sua organizzazione ferrea, basata sul terrore, ha
facile giuoco su una massa di cittadini non rappresentati validamente da
nessuno.
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