lunedì 20 luglio 2015

Il coordinamento antimafia, Sciascia, il Giornale di Sicilia e il Corriere della Sera


Fui tra i primi a partecipare alla fondazione del Coordinamento Antimafia che operò a Palermo negli anni di piombo compresi fra il 1986 e il 1990..." Racconti, diari, testimonianza e memoria contro la mafia. Insieme alle cronache dai campi antimafia, ecco qualche lettura per riflettere itorno al fenomeno della criminalità organizzata. Cominiciamo con un racconto scritto da Vito Mercadante, finalista del Premio LiberEtà 2005.

Fui tra i primi a partecipare alla fondazione del Coordinamento Antimafia che operò a Palermo negli anni di piombo compresi fra il 1986 e il 1990.
Mi convinse ad intraprendere questa attività la considerazione che, mentre la mafia trovava per vie misteriose e traverse tutti i modi per trasmettere all’opinione pubblica i suoi interessati messaggi, la parte che, invece, era nel giusto, non trovava gli spazi e le occasioni per rintuzzare i paradossi mafiosi e paramafiosi. Aveva ragione Gian Paolo Pansa a pensare e a dire che Palermo negli anni che precedettero la sua santissima reazione a questo stato di cose, sembrava una palude. Ma si vede che la coscienza collettiva trova sempre, per forza di cose, una voce per far sentire il suo risentimento ed il suo dolore. In questo caso la vigilanza sulla sorte della cittadinanza toccò a noi rappresentarla. La mafia ed i suoi dintorni non avevano mai trovato nel corso della loro storia una qualunque resistenza nell’opinione pubblica palermitana alle sue ondate di difesa contro uno stato che cominciava a prendere coscienza di sé, combattendola. Così si spiega la gragnuola di colpi che si abbattè su di noi del Coordinamento.
Di questa storia che fu continua, ricordo alcuni momenti importanti. Il primo fu quello del tentativo fatto dal Coordinamento di costituirsi parte civile nel maxiprocesso. Ricordo chiaramente il dibattito svoltosi tra tanti rappresentanti di sindacati ed associazioni per la scelta di avvocati e la meraviglia che mi colpì per certi interventi che, invece di esaltare l’offerta gratuita di porsi a disposizione di certi procuratori, stavano a sottolineare gli interessi, se non altro di notorietà, che li sottintendevano. Uno di questi fu del segretario della Camera del Lavoro di Palermo, Tripi. Cominciai a capire che neppure dentro l’Antimafia tutto scorreva liscio. Poi ci venne respinta dalla Magistratura questa nostra richiesta, mentre venne accettata quella del sindaco di Palermo, Orlando.
La più forte botta ci venne inflitta da una parte da cui, come nel caso di Tripi, non ci aspettavamo il colpo. Fu proprio Leonardo Sciascia a scrivere nel Corriere della Sera un forte articolo sopra i professionisti dell’antimafia nel momento in cui bisognava mobilitare l’opinione pubblica per uno sviluppo positivo del maxiprocesso. Egli, come rappresentanti classici di questa categoria di cittadini mai esistita prima, assumeva Leoluca Orlando e Paolo Borsellino.
Il fatto ci ferì molto perché era un incentivo a quella smobilitazione del movimento che tanti s’auspicavano. Si pensò di rispondere per le rime allo scrittore e se ne assunse il compito un giovane che lavorava presso la casa editrice “ Zisa “ Francesco Pitruzzella.
Il testo scritto da lui fu lo stesso di quello pubblicato nei giornali, perché, essendoci fissato un appuntamento per discuterlo, trovammo che esso era già stato comunicato alla stampa dalle agenzie e così non vi si apportarono quelle correzioni che erano previste per il discorso duro che esso conteneva e per certi frasi che andavano un po’ più su delle righe.
Accadde un putiferio. Fummo attaccati da tutti ivi compresi i comunisti: Farinella e Luigi Colajanni in testa. Non parliamo poi della stampa locale, il Giornale di Sicilia in particolare, che in quei mesi si affannava a diramare precise indicazioni all’opinione pubblica siciliana circa la necessità di non disturbare il processo sulla mafia, che doveva, secondo esso, andare avanti per i fatti suoi. Era stato infranto un mostro sacro ed intoccabile. Il Corriere della Sera che aveva ospitato tutti i “ pezzi “ scritti da Sciascia su questa storia, era il più indignato di tutti. Veniva fuori, insomma, sotto quella nostra provocazione tutta quell’Italia di sinistra e di destra che in buona o cattiva fede era disturbata da questo processo intuito come una rottura di certi equilibri sociali e politici.
Eravamo disperati, come quelli che, avendo rotto con un sistema di silenzi, per una giusta causa, si vedano assaliti da tutte le parti.
Ci aiutò in questo grave momento Gian Paolo Pansa de “ La Repubblica “ che non solo difese le nostre posizioni, ma denunciò la grave scorrettezza per non dire irresponsabilità del Giornale di Sicilia che aveva pubblicato i nomi con altri dati dei componenti il comitato della nostra associazione. Ben presto le parti s’invertirono. Si riconobbe la validità del nostro discorso e si cominciò a guardare con sospetto la tesi di Sciascia. Il mafiologo Pino Arlacchi espresse un giudizio tagliente nei confronti dell’impegno antimafia dello scrittore siciliano nella sua narrativa. Il PCI fece marcia indietro ed inviò a Palermo Aldo Tortorella per vedere come andassero qui i rapporti del partito col problema mafia. Ricordo che in un mio intervento gli espressi i miei dubbi circa i propositi di andare a fondo in questa lotta contro l’onorata società da parte di taluni rappresentanti locali. Col tempo, infatti, alcuni di loro vennero rimossi.
Così la nostra immagine si salvava e nello stesso tempo assumeva maggiore importanza agli occhi della gente. Vedremo poi cosa comportò questa amplificazione della nostra presenza.
Intanto penso che sia necessario parlare di un fatto che mi riguarda personalmente, anche perché può costituire un dato per conoscere meglio Sciascia, considerato che per ora non si fa altro che celebrarlo.
Lo scrittore di Regalmuto in un suo articolo pubblicato sul Corriere della Sera, insinuò il sospetto, per lui vantaggioso, che l’autore di quella nota fosse un preside, di cui non dette il nome, il quale per vendicarsi del fatto che non gli era stato recensito un volume datogli in visione, aveva steso quel testo velenoso che gli era arrivato fra capo e collo. Il preside ero io ed il libro era il mio, non tale, però il testo del documento del Coordinamento.
Ho detto come sono andate le cose. E da ciò si può evincere quanto condizionasse il pensiero dello scrittore il giallismo che si portava dentro. Ma vi è di più. Da tempo, avendo letto e continuato a leggere Sciascia, m’ero accorto che lo spirito e le parti di un mio lungo racconto, inviatogli ed intitolato San Pancrazio che poi aprì una lunga serie di novelle pubblicate in un volume intitolato       “ La terra del caos “, fossero stati fatti suoi nella famosa intervista da lui concessa alla giornalista francese Marcelle Padovanì e nella presentazione di un libro sulla Sicilia. Il libro-intervista intitolato “ La Sicilia come metafora del mondo “ riprendeva alcuni concetti-chiave espressi nel racconto: “San Pancrazio”.
Allora capii il motivo per cui Sciascia comunicò ad un comune amico che ci aveva fatto incontrare, il suo proposito che a me era sembrato strano, di non volermi più rivedere.
Coniugai questi fatti al rifiuto solenne che aveva avanzato alla proposta che gli aveva rivolto diverse volte Mario Mineo per il circolo Labriola, di partecipare ai nostri dibattiti e conferenze, ed a quanto m’aveva detto il professore di Storia Contemporanea presso l’Università di Palermo, Gian Carlo Marino circa quanto Sciascia s’era dato da fare per richiamare all’inizio della sua carriera l’attenzione verso di sé del PCI, per farmi di lui un quadro molto dissimile da quello che i suoi apologeti, solitamente tracciano; come quello per me di un uomo che fra i momenti compresenti in un artista descritti da Croce, fossero predominanti quello economico e quello puramente intellettuale: troppo poco per un impegno antimafia.
Di esso non si può dire che noi fossimo privi, quando pensammo di attuare un progetto che poi si manifestò di una importanza eccezionale.
Era evidente che la mafia, aveva dei precisi riferimenti nei partiti della maggioranza nella Regione e nella compagine del governo nazionale. I primi erano aperti, i secondi meno patenti, anche se più potenti. Ancora: questo fenomeno era considerato dalla gente del Nord e del Centro dell’Italia come un problema che riguardava la Sicilia ed un po’ meno il resto del Mezzogiorno,mentre per noi investiva tutta l’Italia e non solo per via del traffico della droga, ma anche per le ricadute che il compromesso fra mafia e potere romano aveva sulla politica nazionale. Eravamo d’accordo nel Coordinamento che la battaglia contro la mafia si doveva vincere in quella parte d’Italia che se ne considerava indenne, anche per i maggiori consensi che ivi si potevano conseguire.
E così alzammo ponti fra Palermo e varie parti d’Italia: Prato, La Spezia, Massa Carrara, Vicenza ed altre città d’Italia. Nostre pattuglie andarono ad illustrare a migliaia di studenti e di genitori il problema della mafia in Italia davanti talvolta a rappresentanti di partiti al potere che cadevano dalle nuvole quando si accennavano loro gli intrecci perversi fra l’onorata società e i loro partiti a Palermo, per creare contraddizioni all’interno di essi.
Poi ne pensammo un’altra che, per la verità non andò del tutto per il verso giusto. Si era alla vigilia delle elezioni nazionali del 1987. Perché non scrivere nero su bianco tutto ciò che dagli atti giudiziari risultava a carico di certi candidati che candidi non ci sembravano affatto, mentre per la maggior parte, o per dimenticanza o per ignoranza, tali potevano apparire? Detto fatto, mettemmo assieme tre o quattro righe, che li riguardavano, per ognuno di questi vecchi rappresentanti del popolo: gli onorevoli Mannino, Avellone, Lima, Gioia, Gunnella, D’Acquisto e Reina e mandammo il testo che li riguardava alla stampa di sinistra.
Ne venne fuori un putiferio alimentato anche dal fatto che per parecchi giorni ci mettemmo a girare per le strade centrali della città per distribuire ai cittadini copie di quella denuncia, e che si promosse una conferenza stampa per stigmatizzare l’impudicizia di chi si presentava alle elezioni con queste belle storie alle spalle.
Ci prendemmo l’accusa di mafiosi (giusto noi!) dell’onorevole Mannino e dall’onorevole Capitummino, presidente delle ACLI che, per giunta, ebbero il coraggio straordinario, ma normale di certi siciliani dotati di una faccia di bronzo inverosimile, di conclamare che noi eravamo stati sollecitati a questa iniziativa dall’onorevole Mattarella, allora commissario provinciale della DC. In casa della Balena Bianca poi si aggiustarono le cose. Ma l’onorevole Avellone di Partinico non deflettè, ci querelò per calunnia alla magistratura.
Intanto la gente si muoveva attorno a noi: non era vero che Palermo era in stato comatoso rispetto al compito che le spettava di lottare contro la sua nemica di sempre: la mafia. I nostri incontri col pubblico ci facevano riscontrare un successo notevole, fin dalla prima volta, quando lo convocammo per la prima volta a Mondello in occasione di una conferenza-dibattito. Pensammo che sarebbero venuti i famosi quattro gatti ed invece accadde che la sala si riempì di tanta gente e che parecchi cittadini rimasero all’impiedi. Questo primo successo ci spinse a seguire su questa strada. E così un po’ alla volta il popolo di Palermo dimostrò che in buona proporzione esso era schierato contro la mafia.
Bisogna ben dire che in tutta questa vicenda ci fu sistematicamente ostile il Giornale di Sicilia che non solo, come s’è detto, pubblicò tutti i dati relativi alle persone che componevano il comitato del Coordinamento, ma ospitò tutta la spazzatura che ci veniva riversata da tutta quella gente che, ora s’è visto, rappresentava la mafia fuori della mafia, quando non vi stava dentro sino ai capelli. Come era accaduto a Sciascia, il direttore di questo giornale appuntò i suoi strali contro di me per il fatto che ad una riunione indetta fra giornalisti da quelli della rivista “ I siciliani “ di Giuseppe Fava, io avevo invocato la necessità della presenza del mensile fra la stampa siciliana, considerato che un povero diavolo che volesse scrivere qualcosa contro la mafia, non poteva trovare altra ospitalità da quella offerta dalla rivista di Catania. Apriti cielo! Da parte dei vertici del giornale liberale mi si fece sapere che un rigo, che fosse un rigo, di un mio scritto non avrebbe mai trovato ospitalità nel quotidiano. Sono stati di parola.
Il Giornale di Sicilia si è reso famoso durante il maxiprocesso per aver dedicato una facciata sul tema mafia ed antimafia, come se le due entità si potessero trattare alla pari; per avere affermato che parlare di onorata società e dei suoi guasti nella realtà siciliana significava rovinare l’economia siciliana; che i cortei degli studenti manifestanti contro la piovra, sulla scia di quanto diceva Sciascia, erano tempo perduto; che Joseph Bonanno al contrario di Tommaso Buscetta non aveva parlato, insegnando così a tanti siciliani che potevano servirsi del nome di Buscetta per indicare un “ cascittone “, ed altre preziose cose fra cui gli articoli sistematici contro Giovanni Falcone.
In parole povere: non ne ha azzeccata una.
Poi il tramonto del coordinamento. Orlando s’era affermato, nacquero dei litigi all’interno di esso, il PCI aveva voglia di chiudere questa vicenda.
Ma fu una stagione felice di risultati. E non è vero che di esso non c’è più bisogno. La mafia è ancora forte, ha molto ascendente nell’opinione pubblica, è capace a livello cittadino di produrre veleni, di servirsi di uomini riciclati per le sue necessità politiche e sociali di utilizzare referenti politici a livello regionale ed a livello nazionale. Se nell’attuazione di queste iniziative incontrerà il vuoto, avrà migliori mezzi per tenersi a galla.
Recentemente la mafia ha bruciato l’automobile di Angela Lo Canto, presidente di quel che restava del Coordinamento, per avere condotto la battaglia contro i proprietari abusivi di Pizzo Sella che avevano comprato i villini di una società guidata dalla sorella di Totò Riina.
Per la verità la mafia deve il suo successo al fatto che con la sua organizzazione ferrea, basata sul terrore, ha facile giuoco su una massa di cittadini non rappresentati validamente da nessuno.


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