giovedì 6 agosto 2015
Mafia e informazione: “Non solo minacce, così i giornali sono contigui alla criminalità organizzata”
Dai licenziamenti in tronco agli attentati in chiaro scuro, dagli endorsement editoriali targati Camorra ai reporter rimproverati in redazione da boss di Cosa nostra, dagli editori indagati per concorso esterno agli amici dei padrini: ecco il documento esclusivo della commissione Antimafia sulle testate contigue e compiacenti a mafia, 'ndrangheta e camorra
(www.ilfattoquotidiano.it)
Sangue e inchiostro, notizie censurate e rimproveri che in redazione arrivano dalla viva voce di Cosa nostra, licenziamenti in tronco e attentati in chiaro scuro, endorsement editoriali targati Camorra e giornalisti pagati per non lavorare, basta che mettano il cappuccio alla penna. Non ci sono solo le minacce contro i giornalisti, non ci sono solo i tentativi di mettere a repentaglio l’incolumità dei reporter pur di bloccare l’uscita di una notizia, di un’inchiesta, di uno scoop. C’è, infatti, un’altra faccia dell’informazione nostrana ancora a grandi tratti sconosciuta, un aspetto finora mai raccontato sui giornali, perché è proprio dentro le redazioni che va in onda: un fenomeno rimasto per troppo tempo nell’ombra e che da sempre influisce direttamente sulla 73esima posizione occupata dall’Italia nella classifica della libertà di stampa.
L’hanno battezzata “informazione contigua, compiacente o persino collusa con le mafie”, ed è l’oggetto della relazione approvata pochi minuti fa dalla commissione parlamentare antimafia. Decine di audizioni per ascoltare a palazzo San Macuto giornalisti, direttori di testata e magistrati, centinaia di pagine di verbali giudiziari, articoli di quotidiani, pezzi di storia nera dell’informazione italiana raccontati dai protagonisti superstiti per arrivare a dire che “esiste un reticolo di interessi criminali che ha trovato in alcuni mezzi d’informazione e in alcuni editori un punto di saldatura e di reciproca tutela”. È questo l’oggetto sul quale lavorano da più di dodici mesi un pugno di parlamentari dell’Antimafia guidati da Claudio Fava, vicepresidente di palazzo San Macuto, figlio di Giuseppe, giornalista ucciso da Cosa nostra nel 1984. Ottanta pagine di relazione finale, che ilfattoquotidiano.it ha potuto consultare in anteprima, per ripercorrere i due macro insiemi che pesano come un macigno sull’informazione italiana: da una parte le decine di cronisti minacciati ogni anno nei modi più diversi (dalle querele temerarie, agli avvertimenti, alle lesioni personali), dall’altra i giornali collusi con le associazioni criminali.
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“In entrambi i casi – scrive Fava nella sua relazione finale – a patirne le conseguenze è la libertà dell’informazione: chi intimidisce un giornale o corrompe un giornalista procura un immediato e rilevante danno sociale all’intera comunità civile”. Se l’Italia è il Paese con il più alto numero di reporter minacciati e sotto scorta del mondo occidentale, ha probabilmente battuto ogni record per quanto riguarda gli episodi di opacità che legano i giornali alla criminalità organizzata. Il gruppo parlamentare guidato da Fava ha messo nero su bianco un elenco di casi, in cui non occorre che mafia, ‘ndrangheta e camorra si attivino per minacciare i cronisti scomodi: è direttamente l’editore o il direttore a mettere loro il bavaglio.
Il caso Castaldo: pagato per non scrivere
È la terra che ha versato il contributo di sangue maggiore alla libertà d’informazione, con otto cronisti su nove assassinati perché facevano il loro lavoro. Ma dopo gli assassini di Mauro De Mauro e Mario Francese, dopo le minacce a Lirio Abbate, in Sicilia è calata la pax: non si spara più. Al massimo per far tacere un cronista lo si paga per non lavorare. È quello che è successo a Franco Castaldo: il quotidiano La Sicilia di Mario Ciancio gli paga regolarmente lo stipendio, dopo decine di cause, ma lui non lavora, e Ciancio gli impedisce di entrare nella redazione di Agrigento, dove risiede. Il motivo? Nel 1995 Castaldo ha raccontato le accuse di contiguità alla mafia mosse dalla magistratura a Filippo Salamone, l’imprenditore poi condannato definitivamente a sei anni e mezzo di carcere. “In seguito a un incontro tra Ciancio e il Salamone, ricevetti una letterina di tre righe: intendendo avvalerci della sua alta professionalità, la trasferiamo a Catania al settore cronache. Trasferito a Catania mi hanno messo in uno sgabuzzino. Ricordo che non avevo una scrivania né un telefono, mi sedevo nel posto del collega che quel giorno era di corta”, racconta lui davanti alla commissione antimafia. “Dopo effetto del mio primo articolo Salamone ha querelato e citato per danni me e il mio editore, ma prima ancora di arrivare al processo scoprii che Salamone aveva rinunciato ad ogni attività risarcitoria e ritirato le querele nei confronti di Ciancio”. Risultato? “Dal 1996 ad oggi sono diciotto anni che percepisco lo stipendio e ogni due anni un risarcimento del danno ma non ho più messo piede in redazione ad Agrigento”. Dopo aver perso una serie di cause Ciancio si è arreso: paga Castaldo basta che non scriva un rigo sul suo quotidiano.
Il caso Telecolor: una redazione epurata
E se Castaldo è pagato per non lavorare, licenziati in tronco (salvo cause vinte davanti al giudice del lavoro) sono stati invece i dipendenti della televisione catanese Telecolor. La loro colpa? “Eravamo un gruppo di giornalisti che non dovevano dire grazie a nessuno e quindi lavoravamo in maniera assolutamente autonoma”, spiega a palazzo San Macuto uno degli epurati, Domenico Valter Rizzo, raccontando anche le tappe della “normalizzazione” dell’emittente. “Ciancio crea un’agenzia, che si chiama Asi, diretta dalla figlia Angela: convoca i rappresentanti sindacali della redazione, il comitato di redazione e il direttore e dice in maniera molto chiara che l’agenzia avrebbe dovuto occuparsi totalmente dell’informazione, sarebbe stata una sorta di redazione parallela che avrebbe seguito i casi più sensibili, mentre noi ci saremmo occupati della parte residuale. La risposta è stata categorica: non se ne parla. Quindi vengono eseguiti i primi due licenziamenti: il direttore Nino Milazzo si è rifiutato e si è dimesso per protesta. A quel punto Ciancio convoca una redattrice, Michela Giuffrida (oggi europarlamentare del Pd ndr) che doveva essere anche lei licenziata, e la nomina direttore. Noi non votiamo la fiducia nei confronti di questa persona e sono scattati i licenziamenti per gli altri colleghi che rimanevano”. L’agenzia di stampa Asi chiuderà i battenti poco dopo.
Il caso Ciancio: deus dell’informazione sotto inchiesta per mafia
Il patron de la Sicilia Ciancio, con partecipazioni azionarie nel Giornale di Sicilia e nella Gazzetta del Mezzogiorno, già presidente Fieg e vicepresidente di Ansa, è attualmente indagato dalla procura di Catania per concorso esterno a Cosa nostra: recentemente gli inquirenti hanno rintracciato 52 milioni di euro nelle sue disponibilità depositati su conti svizzeri, 12 di questi sono stati sequestrati. Nella sua relazione Fava si occupa del caso Ciancio in maniera molto approfondita: dall’arrivo in redazione di Pippo Ercolano per rimproverare il giornalista Concetto Mannisi, reo di averlo definito un boss mafioso, con l’editore del giornale a fare gli onori di casa, alla lettera del boss Vincenzo Santapaola, recluso in regime di 41 bis, pubblicata integrale senza tagli o commenti, fino al necrologio del commissario Beppe Montana, assassinato da Cosa nostra, che invece viene respinto. Il motivo? “Il testo parlava di un delitto di mafia dagli alti mandanti”, spiegherà il giornale. “Anni dopo – dice la commissione – La Sicilia non mostrerà gli stessi scrupoli quando – il 30 luglio 2012, il giorno dopo la morte del capomafia Giuseppe Ercolano (lo stesso ricevuto da Ciancio nel suo ufficio in occasione della reprimenda verso il suo cronista) – il giornale pubblicherà ben tre necrologi di amici e parenti che ricordano l’Ercolano”.
Il caso del Giornale di Sicilia
Ma non c’è solo il caso Ciancio in Sicilia. “L’editore del Giornale di Sicilia era amico di Michele Greco, che in quel momento era il capo di Cosa nostra palermitana, e alcuni giornalisti erano amici di mafiosi. Stefano Bontate e Mimmo Teresi frequentavano spesso la redazione”, è uno dei passaggi della deposizione davanti la commissione di Lirio Abbate, ex collaboratore del principale quotidiano palermitano, poi giornalista dell’Ansa e oggi inviato dell’Espresso, oggetto di pesanti minacce di morte. “Come si vedrà – continua Abbate – e come si è visto da alcune indagini, a loro questi giornalisti rivelavano notizie e retroscena su alcuni fatti, in modo da tenere aggiornata e informata Cosa nostra. La mentalità mafiosa di mettere mano all’informazione fino a pochi anni fa, almeno fino a quando sono rimasto a lavorare a Palermo, non è cambiata”. Sono gli anni ’80, Palermo è scossa dalla guerra di mafia, dagli assassini di Carlo Alberto Dalla Chiesa e altre decine di servitori dello Stato, e Federico Ardizzone, patron del Giornale di Sicilia, decide di “normalizzare” il quotidiano. “Viene consegnata la lettera di licenziamento al direttore Fausto De Luca, mentre è in ospedale per fare la chemioterapia per un cancro ai polmoni. Lo licenziano in ospedale. Cambia di nuovo il consiglio di amministrazione, Ardizzone dice: “Abbiamo scherzato. Prima di dire mafioso a uno, voglio la foto”, racconta Francesco La Licata, firma storica de La Stampa, ex cronista de L’Ora e del Giornale di Sicilia, dove viene considerato cronista ingestibile, a causa di un problema: è l’unico che porta notizie al giornale.
“Mi ricordo che se parlavi di un imputato mafioso te lo trovavi in redazione. Cassina veniva di persona, Lima pure… Le carte del maxi processo furono mandate per fax alle esattorie di Palermo. Nasce così la filosofia del presunto e l’interprete per eccellenza è stato Pepi, che è ancora lì”. Il riferimento è per Giovanni Pepi, il direttore più longevo d’Italia, in sella da 33 anni. “Lo vidi in occasione del matrimonio della figlia di Lipari, Pino Lipari, che lo salutò affettuosamente e mi disse che era un amico”, metterà a verbale il pentito Angelo Siino. “La Lipari – si giustificherà Pepi – era una collaboratrice del giornale, ed era la figlia. Per questa ragione mi trovavo a quel matrimonio. Mi presentò suo padre e lo salutai”. “In occasione di un altro mio colloquio con il Lipari questi mi disse che il Pepi avrebbe dovuto fare un’intervista al latitante Riina, concordata con il Lipari. Poi, però, non se ne fece nulla per l’opposizione di Antonio Ardizzone, che si preoccupava dei possibili riflessi negativi sul giornale” è un’altra delle accuse lanciata da Siino, molto simile a quella di un altro pentito, Vincenzo Sinacori. “Riina parlando di un suo possibile arresto aveva fatto riferimento alla necessità di proseguire con la linea dura che, qualora arrestato, egli avrebbe potuto rilasciare un’intervista solo al Pepi che riteneva l’unico giornalista serio”. Identica la reazione alle due contestazioni da parte di Pepi davanti la commissione antimafia. “Ne vengo a conoscenza solo adesso”. Il direttore del Giornale di Sicilia ha poi ricordato che il suo giornale ha appoggiato il movimento Addio Pizzo, ed ha intervistato l’imprenditore Libero Grassi, poi assassinato per essersi opposto al racket delle estorsioni. “Per completezza – annota la relazione – bisogna anche dar conto che, sotto il periodo della condirezione di Pepi, il Giornale di Sicilia ha dato spazio alle notizie su Cosa Nostra, in tempi più remoti pubblicando le inchieste di Mario Francese su argomenti che altri giornali non toccavano o, come già riferito dallo stesso Pepi, pubblicando i resoconti integrali del maxiprocesso che hanno fatto conoscere gli orrori di Cosa Nostra attraverso il racconto dei mafiosi divenuti collaboratori di giustizia”.
In Campania la pubblicità ai giornali la fa la Camorra
Dalla Sicilia si passa alla Campania, dove i rapporti tra giornali e associazioni criminali sono, secondo l’Antimafia, più evidenti. Nella terra che ha dato i natali a Giancarlo Siani e a Roberto Saviano capita anche che i boss della Camorra facciano endorsement pubblici in favore di un giornale. “In un caso, la Gazzetta di Caserta pubblicò la lettera che gli era stata spedita da Francesco Schiavone, all’epoca capo del clan dei Casalesi, che si congratulava con il direttore per quanto fosse bello quel giornale, lettera pubblicata in prima pagina, con l’indicazione che quel giornale gli piaceva più dell’altro, cioè del Corriere di Caserta, e che quindi avrebbe detto a tutti i suoi amici di cambiare giornale. In effetti, la Dda accertò che da un giorno all’altro ci fu un passaggio di 2.000 copie da una testata all’altra”, ha spiegato la senatrice del Pd Rosaria Capacchione, giornalista del quotidiano Il Mattino, finita sotto scorta.
Giornalisti minacciati in Calabria. Sansonetti: “Mica facevo il poliziotto”
“Il pentito Moio diceva: la ‘ndrangheta a Reggio vota a destra. E il giorno dopo mi ritrovo l’articolo con il virgolettato: la ‘ndrangheta a Reggio vota a destra perché è la parte politica che governa, altrimenti voterebbe a sinistra”, è uno dei passaggi messi a verbale a san Macuto da Lucio Musolino, ex giornalista di Calabria Ora, oggi collaboratore de ilfattoquotidiano.it. Musolino è stato destinatario di pesanti minacce da parte della ‘ndrangheta proprio negli stessi giorni in cui il suo ex giornale cambia direttore: dopo Paolo Policchieni arriva Piero Sansonetti. È con Sansonetti che si propone a Musolino il trasferimento da Reggio Calabria a Lamezia Terme, ed è sempre sotto la sua direzione che Musolino viene licenziato.”Ma la preoccupazione per le sorti personali, la salute fisica, l’incolumità di Musolino, è stata mai presente?”chiede la commissione Antimafia a Sansonetti. Che risponde: “Sono andato a fare il direttore lì, non il poliziotto”.
La gestione di Sansonetti del quotidiano Calabria Ora è finita sotto la lente della commissione soprattutto per un altro motivo: le posizioni della testata sui collaboratori di giustizia. “Maria Concetta Cacciola apparteneva a una famiglia di ‘ndrangheta di Rosarno, ci parla di una serie di omicidi e viene messa sotto protezione. Succede però che i familiari riescono a rimettersi in contatto con lei, la costringono a tornare a Rosarno, la costringono a registrare una ritrattazione delle dichiarazioni che aveva reso a noi e poi la trovano morta per aver ingerito acido muriatico, che purtroppo è anche un gesto evocativo, cioè una fine che viene riservata ai collaboratori di giustizia, a chi parla troppo”, racconta all’antimafia Giovanni Musarò, sostituto procuratore a Roma, ex pm a Reggio Calabria.”Qualche giorno dopo – continua il pm – partì una campagna stampa molto pesante su un quotidiano, L’Ora della Calabria. Erano degli articoli in esclusiva fatti per giorni e il titolo era: Cronaca di un suicidio annunciato. Veniva attaccata pesantemente la Dda di Reggio Calabria, il modo in cui era stata gestita”.
Una situazione simile si verifica con il pentimento, poi ritrattato di Giuseppina Pesce, dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta: L’Ora della Calabria da ampio risalto alla sua ritrattazione e attacca i pm pubblicando la lettera della pentita. Solo che in questo caso, Pesce fa di nuovamente marcia indietro, torna a collaborare e racconta agli inquirenti quello che era successo. “La lettera – spiega il pm Musarò – con la sua ritrattazione sarebbe stata data a Sansonetti perché l’avvocato diceva che era l’unico disposto a pubblicargliela e a sposare la loro causa”.Come si giustifica Sansonetti a San Macuto davanti a queste accuse? Con una semplice opinione: “Penso che spesso i pentiti siano indotti a parlare e che non sempre siano credibili”. Più o meno la stessa sensazione che viene fuori dopo aver letto il resoconto fatto dall’Antimafia sugli ultimi trent’anni di stampa italiana.
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