giovedì 6 agosto 2015

Puglia, la piaga delle donne sfruttate nei campi


Sono italiane e neocomunitarie. Sottopagate. Costrette a lavorare anche 10 ore. In Puglia 40 mila schiave della terra. Le aziende? Pochi controlli, zero sanzioni.

Latina. Oppio ai braccianti indiani sikh: così lavorano di più.
Da:wwwlettera43


Maria (il nome è di fantasia), 49 anni e mamma di tre bambini, il 13 luglio, come sempre, era partita da San Giorgio Ionico alle 2 di notte per raggiungere su un pullmino le campagna di Andria, contrada Zagaria, insieme con altre donne.
Qui anche quel giorno avrebbe lavorato sotto un tendone per acinellare l'uva. Ma verso le 8 è crollata a terra e per lei non c'è stato nulla da fare.

NESSUNA AUTOPSIA. Nessuna autopsia, il medico legale ha stabilito che si è trattato di morte naturale, forse per il caldo eccessivo. E così il pm ha dato il nullaosta per la sepoltura al telefono.
«Il cuore della donna», si legge nel comunicato sindacale della Flai Cgil, «ha tradito questa mamma bracciante, facendola crollare nella polvere. Sembra che in ospedale non sia mai arrivata. Il carro funebre l’ha portata direttamente dal campo di lavoro alla cella frigorifera del cimitero di Andria, dove il marito e i figli l’hanno trovata. Sembra che in ospedale non sia mai arrivata. Ma com’è morta esattamente? Restano una serie di dubbi: è stato rilasciato il referto del servizio 118? È stata fatta l’autopsia?».

Nei campi della Puglia non muoiono solo gli immigrati, come Mohammed, 47enne bracciante sudanese spirato a Nardò, per il caldo e l'affaticamento, raccogliendo pomodori 12 ore al giorno a meno di 2,5 euro. Ma anche le donne.

LE NUOVE SCHIAVE. Sono queste le categorie «più deboli e a rischio», spiega a Lettera43.it il segretario generale Flai Puglia Giuseppe Deleonardis. I numeri sono impressionanti: su 184 mila lavoratori, il 45-50% sono donne e di queste circa 40 mila sono sfruttate quotidianamente nei campi e nelle serre della regione. «Dalla raccolta delle ciliege a fine aprile fino a quella dell'uva da tavola a ottobre».
E il caporalato, cancro trentennale del settore, non è l'unico nemico da combattere.

SALARI SOTTO IL MINIMO. Il problema, continua Deleonardis, è che la stragrande maggioranza delle aziende opera in una zona grigia: i salari sono quasi sempre sotto i minimi contrattuali, gli straordinari sono un'utopia come le qualifiche.
I contratti? «Ci sono», allarga le braccia il sindacalista, «ma sono spesso una pura formalità». Insomma: dove c'è la legge, si trova il modo per aggirarla.
Il gender gap sulla terra: le donne sono meno pagate

La condizione delle lavoratrici della terra è di puro sfruttamento. E, se possibile, sottolinea Deleonardis, anche peggio di quella dei colleghi maschi.
Il gender gap, per usare un termine in voga ma fuori dai campi, esiste e resiste anche qui: «A parità di mansioni e di orario, una donna guadagna meno di un uomo sottopagato».
Non si arrivano a portare a casa 32 euro al giorno contro un minimo tabellare di 53 euro lordi, 47 netti.

LE PENDOLARI DELLA NOTTE. La situazione peggiore è quella di quante da Brindisi e Taranto sono costrette a lavorare nel Barese e nella Bat (la provincia Barletta-Andria- Trani).
Sono italiane, ma anche neocomunitarie, 20 mila sono rumene.
I numeri vengono ancora in soccorso per capire di cosa si sta parlando. Solo da San Giorgio Ionico (Ta) che conta 15.500 anime (quasi 8 mila donne), partono ogni mattina per i campi 600-700 braccianti.
«Per raggiungere il luogo di lavoro», spiega Deleonardis, «si impiegano dall'ora all'ora e mezzo di tragitto». Il trasporto è a carico della lavoratrice, 5-10 euro che ogni giorno finiscono nelle tasche del caporale, dell'agenzia di intermediazione o del massaro.

ORE NON CONTEGGIATE. Quelle 3 ore al giorno passate sul bus dovrebbero essere detratte. E, invece no, non sono conteggiate.
Le ore lavorative, da contratto, sono sei. Che però diventano sette, otto, anche 10 e tutto senza straordinario. I salari sono concordati in piazza, pratica illegale: «Vuoi lavorare?», è la trattativa, «Ti do 30 euro al giorno per 30 giorni, fa 900 euro».
In busta paga, però, i giorni lavorati diventano magicamente 18, 19. Il lavoro, anche quello qualificato come la raccolta dell'uva da tavola, viene fatto passare per generico. E così tutto torna, almeno per l'imprenditore. L'azienda evade. E sfrutta.

SOLO IL 20% DELLE AZIENDE IN REGOLA. Secondo la Flai, sono pochissime le aziende che rispettano i contratti, un 20%. «Si tratta delle più importanti», sottolinea il segretario, «o con un'esposizione mediatica forte».
Le altre, decine di migliaia, semplicemente se ne fregano e giocano sulla disperazione di chi deve lavorare e portare a casa uno straccio di stipendio. Donne in primis.
Nel 2014, su 40 mila imprese solo 1.818 ispezioni

 Nonostante le denunce del sindacato, il sistema non cambia. «C'è sfiducia nei confronti dello Stato», chiarisce il sindacalista. «Ormai si è assuefatti».
Inoltre si respira «un clima omertoso, le lavoratrici sono costantemente sotto ricatto».
I controlli potrebbero essere un buon deterrente. Il problema è che non se ne fanno.

CONTROLLATO IL 4,5% DELLE ATTIVITÀ. Nel 2014 le ispezioni in Puglia sono state 1.818 su 40 mila imprese ortofrutticole (7 mila da 10 a 1500 dipendenti, 30 mila da 5 a 10): praticamente è stato controllato il 4,5% delle attività.
Nel 55% dei casi stata registrata una inadempienza a vario titolo, l'80% di queste per lavoro nero.

CHI SBAGLIA NON PAGA. Chi sbaglia, poi, quasi sempre non paga. «Le aziende denunciate continuano a usufruire dei finanziamenti pubblici», conclude Deleonardis, «come quella in cui è morto Mohammed».
A settembre, alla ripresa dei lavori parlamentari, finalmente verrà discussa una proposta di legge per costruire una sorta di rete di qualità per le imprese, che però non tocca il nervo del collocamento. Potrebbe essere un primo passo per regolamentare un far west. Non è una esagerazione, e nemmeno un piagnisteo.

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