giovedì 24 agosto 2017

Parla la testimone di giustizia: la riforma della protezione per restituire la vita a chi si è schierato da parte dello Stato



“Avremmo potuto, quando sono morti i miei fratelli, continuare a vivere nella nostra città, a quel punto non ci avrebbero toccati. Ma mio padre decise con il nostro sostegno di schierarsi dalla parte dello Stato. E’ stata una scelta che abbiamo pagato a caro prezzo, ma che rifarei”.

La figura esile di Maria, si staglia nell’aria torrida di Castelvolturno. Lei, calabrese, ha deciso di venire a vedere da vicino uno dei campi della legalità organizzati da Libera in un’altra terra difficile come quella campana. Luoghi noti, grazie al film e alla serie Gomorra.
Suo padre fu tra i primi testimoni di giustizia in Calabria, una scelta coraggiosa che comporta sempre un alto costo per la persona che decide di farla.  
“Sei costretta a recidere ogni rapporto con il tuo territorio di origine. La solitudine che ne deriva può essere devastante con effetti perversi: l’isolamento, la difficoltà di trovare un lavoro. Quando il programma di protezione si conclude, sei sola, non hai più nessun sostegno”. Riavvolge il nastro dei ricordi Maria.
“Uno dei miei fratelli era coinvolto – racconta -, era affiliato all’ Ndrangheta. L’altro non aveva alcun rapporto con quegli ambienti ma fu lo stesso ucciso in una vendetta trasversale. A quel punto scattò nei miei genitori,  in me, in mia sorella una molla che ci spinse a chiudere definitivamente con quella vita. Non eravamo mafiosi, e non potevamo più accettare quella situazione. Subito dopo la legge che introduceva la protezione per i testimoni e i collaboratori di giustizia, decidemmo di entrare sotto protezione. Allora non esisteva una distinzione tra le due figure, che fu introdotta solo nel 2001”.
Maria ricorda il trasferimento in un’altra città, le cautele e gli accorgimenti per evitare di essere riconosciuti. La difficoltà di ricostruirsi una nuova vita altrove, lontani da casa.  
“Abbiamo vissuto in tutti questi anni con le pensioni dei miei – afferma –. Nel programma di protezione non puoi lavorare. E’ un po’ come vivere in esilio, come essere in una prigione senza poter fare nulla, sconosciuto perfino ai servizi sociali. Quando poi finisce il programma, è difficile avere un lavoro perché non solo non hai identità ma non hai potuto fare esperienza. Hai il vuoto intorno, mente le intenzioni del decreto Borsellino erano quelle di rendere autonomo il testimone di giustizia. E’ una situazione in cui a volte ti trovi a combattere oltre che con la mafia, anche con lo Stato” .
 E’ per queste ragioni che per Maria vede di buon occhio, come gli altri testimoni di giustizia, una ottantina in tutto,  il progetto di riforma delle norme che regolano il sistema di protezione, approvato già all’unanimità alla Camera e ora in discussione alla commissione Giustizia del Senato. A settembre potrebbe essere approvato in via definitiva.
“Tra le misure che ritengo importanti – sottolinea – c’è la possibilità di essere protetti nella propria terra e l’assunzione presso la pubblica amministrazione. E’ un provvedimento che finalmente fa giustizia, mettendo in condizione il testimone - che ricordo qui non è coinvolto in fatti di mafia, non è mafioso - di rifarsi una vita”.





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