giovedì 24 agosto 2017

Castelvolturno, una rete di associazioni contro il degrado



Lungo Viale Lenin  (chissà cosa avrebbe pensato il padre della Rivoluzione d’ottobre di questi luoghi), si può misurare con mano quale impatto può avere un più che trentennale dominio dell’illegalità. Trentacinque anni fa, Baia verde era una meta turistica per la classe media napoletana, e per la verità, anche allora tra case abusive e rioni senza permesso, non è che la legalità fosse proprio un vanto.
“Negli anni ’70 e ‘80 una casa nasceva in trenta giorni – racconta Alessandro Buffardi, referente di Libera e membro dell’associazione Jerry Masslo – per cui molte non avevano nemmeno i sottoservizi necessari. Tutto abusivo. Sono nati così gran parte dei villaggi sulla costa”.  
 Lo spartiacque è il terremoto del 1980: migliaia di terremotati vengono parcheggiati nelle ville del litorale. Dopo qualche anno, molte case sono ridotte così male che i proprietari preferiscono abbandonarle o affittarle agli immigrati che cominciano ad arrivare in massa per coltivare la terra.  Le condizioni di lavoro per i braccianti sono terribili. L’assassinio di un migrante sudafricano, Jerry Masslo, ad opera di rapinatori del posto decisi a rubare il povero incasso di giornate di lavoro, crea una prima reazione: nasce una associazione, la “Jerry Masslo”, che diventa nel corso degli anni un riferimento per la popolazione migrante e non solo, con le sue unità di strada e i suoi ambulatori aperti a tutti, con o senza permesso di soggiorno.   
Oggi, dei venticinquemila abitanti di Castelvolturno, in 5mila arrivano dall’Africa e dall’Est Europa. Sono quelli ufficiali, quelli con qualche tipo di permesso. Altri 15 mila sono gli irregolari, una stima che l’amministrazione fa calcolando i rifiuti ritirati nella raccolta per strada.  
“Una piano di raccolta – racconta Alessandro – copiato pari pari da quello di Aversa, con la differenza che qui abbiamo 140 stabilimenti balneari e decine di ristoranti che ad Aversa non ci sono”.  
Metà dei negozi di Baia Verde sono chiusi, molte delle case sono in decadenza, alcune in rovina. Italiani e migranti vivono come separati in casa, con alcuni tra i primi che lucrano affittando case fatiscenti ai secondi, che vivono ancora ammassati negli alloggi del  Villaggio Agricolo. Con la differenza rispetto al passato che oggi un immigrato arriva a Castelvolturno per andare da qualche altra parte, perché non c’è più tanto lavoro come una volta.
La sporcizia e il degrado dominano: zero sevizi, zero punti di aggregazione, quel poco che c’è è messo in piedi dalle associazioni, non certo dalle istituzioni.
Come risposta a questo vuoto, sono fiorite così negli anni organizzazioni di volontariato che offrono non solo assistenza ai più deboli, ma coprono quello che lo Stato e l’amministrazione locale negano: sanità, istruzione, sport. 
Con la Jerry Masslo che ha fatto da apripista, quando nessuno voleva occuparsi di immigrati, altre realtà hanno marcato una presenza in questi territori. Il Centro Fernandes animato dalla Curia di Capua al Villaggio Agricolo, è il luogo dove si provano a risolvere i tanti problemi degli stranieri. Da quando è in funzione, sono “più di tremila gli immigrati che hanno trovato qui assistenza e sostegno”, dicono dalla Curia. Ha un suo presidio dal 2013 Emergency che ha dato cure mediche a migliaia di persone. La cooperativa Altri Orizzonti, l’associazione Arca e la Casa del Bambino si preoccupano di seguire i giovani nel percorso scolastico e formativo, svolgendo attività di doposcuola, di aggregazione e gioco. E ci sono persone, come ad esempio il campione di pallacanestro Massimo Antonelli, che a partire dal 2016 offre una opportunità di giocare a basket a 50 figli di immigrati che non avrebbero altrimenti possibilità di farlo. In attesa che lo Stato si riprenda questo territorio, da troppo tempo lasciato in balia di illegalità e abbandono.

Baia Verde (Villaliterno, Caserta).  

Cuce alla macchina con maestria Bose, quindi  riassetta i tessuti di foggia africana, messi una sopra l’altro, sul grande tavolo al centro della sala. “Questo viene dal Mozambico, invece quest’altro così elegante arriva dal mio Paese, dalla Nigeria”, racconta con un turbante con varie tonalità di arancio sulla testa, e un abito in pizzo bianco, secondo la moda nigeriana.
Come le altre donne della sartoria sociale “Made in Volturno”, Bose ha una storia difficile alle spalle, ma anche la determinazione di guardare avanti, al futuro. E’ stata lei ad insegnare “l’arte dei sarti” a Morin, a Pat, a Esma. E’ un’arte antica. Raccontano che in Africa ci sono dei modellisti che possono farti un vestito su commissione in un solo giorno. Quest’arte, ora, è al servizio del riscatto civile. “La sartoria dà lavoro a quattro persone, ma speriamo in futuro di occuparne di più”, spiega la 24enne Clelia Carnevale, nuova coordinatrice della sartoria.
“E’ un progetto a cui crediamo molto, e che siamo sicuri è in grado di dare lavoro e reddito a più persone. In questo contesto non è facile, ma ce la possiamo fare”. 

Siamo a Baiaverde, desolata porzione di  litorale, che ricade nel comune di Castelvolturno, in provincia di Caserta. La villa che una volta apparteneva a Pupetta Maresca, figura di spicco della camorra pre-cutoliana, oggi si chiama “La Casa di Alice”. Come altri beni confiscati, non era sfuggita al “saccheggio” e al degrado, ma è rinata a partire dal 1997 (anno dell’assegnazione del bene) sotto la bandiera di Libera. Oggi ospita l’associazione “Jerry Masslo”, fondata dal medico e sindaco di Casal di Principe Renato Natale alla fine degli anni ‘80 e la Cooperativa “Altri Orizzonti” che gestisce la sartoria. “Si tratta di due organizzazioni gemelle – spiega Alessandro Buffardi, presidente -, nel senso che gli iscritti all’associazione lo sono anche alla cooperativa, ma con compiti molto diversi: la prima si occupa degli immigrati vittime della tratta, di minori e di persone svantaggiate con dipendenze o handicap sotto l’aspetto sanitario e sociale, attraverso le unità di strada e gli ambulatori, e in collaborazione con le Asl. La cooperativa fondata nel 2010, ha come funzione prevalente quella del reinserimento lavorativo di questi soggetti. Oggi conta 16 soci lavoratori”.
Da settimane alla villa si alternano ragazzi arrivati dalla Liguria, dalla Lombardia, dal Veneto, dalla Lombardia, dal Piemonte e dal Lazio nell’ambito di “Estate Liberi”. E’ uno dei campi a cui partecipa anche lo Spi Cgil. Il tema di questa settimana è la corruzione e lo smaltimento illegale dei rifiuti.

Una sartoria contro lo sfruttamento dei migranti
La sartoria apre ufficialmente i battenti nel 2011, sostenuta da un finanziamento di Unicredit che ha creduto nel progetto. “Fin dall’ inizio lo scopo è stato quello di saldare al tema etico della lotta allo sfruttamento, una possibilità concreta di occupazione per le donne italiane ed immigrate”, spiega Alessandro.
Da gennaio ‘a capo’ della sartoria”, dopo le volontarie che avevano dato vita e animato l’iniziativa nei sei anni precedenti, c’è Clelia arrivata qui con in tasca una laurea in Moda all’Accademia delle Belle Arti di Napoli e un corso di imprenditoria.
 “E’ un’esperienza di cui mi sono innamorata quasi subito, il mondo della moda è un po’ bruttino, qui invece ci capiamo al volo, c’è il modo di vivere diversamente la passione per la moda”. 
L’iniziativa è stata molto appoggiata dal mondo dell’associazionismo antimafia, ed oggi la sartoria è conosciuta in tutta Italia anche perché, tra le altre cose,  realizza i fiocchi  del pacco anti-camorra. “La nostra ambizione – continua Clelia - è ora quella di arrivare anche ai ‘civili’, alla persona comune, per consolidare la sartoria anche dal punto di vista del mercato”.   
Per giungere a questo obiettivo, le sarte stanno lavorando a un restyling di buona parte dei prodotti delle tre linee di produzione: vestiti, prodotti per la casa, borse e accessori.
Il primo banco di prova sarà la sfilata per un premio letterario in programma a settembre, che segue le molte realizzate in questi anni.     
I bei capi e accessori, nei vivi colori della tradizione africana rivisitati in chiave moderna, sono visitabili sul sito  www.madeincastelvolturno.com che funge anche da shop online. “La progettazione? Diciamo che sui nuovi capi lavoro io al carta-modello, ma in realtà il lavoro di ideazione è molto più complesso, corale per certi aspetti”. 
“Troviamo il tempo anche per una risata – sottolinea Pat, nigeriana da 10 anni in Italia -; la nostra sfida non è ancora vinta, ma siamo sicure che presto questa realtà si reggerà sulle sue gambe”. 
La sartoria può contare su alcuni negozi che prendono in conto-vendita i prodotti a Napoli, Bologna, Palermo, e da qualche mese la sartoria, sta cambiando i propri fornitori, con l’obiettivo di fare rete con quelli presenti sul territorio.


Le voci di fuori. I volontari
Perché qui? “Tocchiamo ogni giorno con mano la corruzione – spiega Mario, medico di 29 anni arrivato da Genova -  Io sono uno specializzando in pediatria, e posso documentare le pressioni delle case farmaceutiche sui medici, che vengono corteggiati con convegni in luoghi esclusivi e prebende di ogni tipo per far passare un farmaco. Accade anche a me che sono l’ultima ruota del carro.
Ecco penso che se si vogliono battere certi fenomeni, non bisogna stancarsi di fare rete, di fare fronte comune”. 
Sara, 23 anni, è una studentessa in Ingegneria gestionale al Politecnico di Milano. Studia l’impatto ambientale e sociale delle organizzazioni e delle imprese economiche : “Le uniche cose che sapevo su Castelvolturno erano ricavato dai giornali e dai film, come Gomorra. Venire qui è diverso, è tutto più vero: sono rimasta colpita dal degrado della zona, vedere le case in rovina e la spazzatura dappertutto, cose inimmaginabili da noi. Ma questo non vuol dire che la mafia non esiste da noi, anzi. Mi hanno colpito anche le persone che sono impegnate in tutto questo, ci vuole molto coraggio”. Chiara, 21 anni, è di Lecco e studia Comunicazione e società presso la facoltà di Scienze politiche: “Siamo ragazzi che provengono da città e ambienti diversi, mi ha impressionato favorevolmente il fatto che ci siamo subito integrati. All’inizio non sapevo cosa aspettarmi: è una realtà dura, ma è bello vedere persone che fanno qualcosa per cambiare la situazione”.

Le voci di fuori. Lo Spi umbro a Castelvolturno.
“E’ un progetto molto importante, in un territorio difficilissimo, Penso sia significativo che qui ci sia una proposta per il lavoro e per l’occupazione, che dà un senso maggiore, se vogliamo, all’uso di un bene confiscato. Da questo punto di vista, spero in una riforma della legge che permetta di sostenere le attività produttive confiscate, che si perdono nelle pastoie burocratiche e nei tempi troppo lunghi tra sequestro e confisca”. A dirlo è la segretaria dello Spi Umbria, Lucia Rossi in visita al campo di Castelvolturno.
“Quello che sembra mancare è l’appoggio e la solidarietà delle istituzioni, e anche della società civile. E’ un fatto che ho riscontrato non solo qui, ma anche ad esempio nella mia regione”.    

  

  

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